Il genocidio di un popolo raccontato con la musica

Davide Brullo
Il Giornale
21 Gennaio 2016

Partiamo dalla fine. Giovane, colto, determinato, Sargis Ghazaryan ha 36 anni, parla otto lingue, ha studiato a Venezia, a Gorizia e a Trieste. Da due anni è l’Ambasciatore della Repubblica d’Armenia in Italia. Da tempo lavora perché il genocidio degli armeni «venga riconosciuto per quello che fu: un crimine perfetto e in quanto tale replicabile tanto da aprire la strada ai genocidi del ventesimo secolo». Di fronte al disco di Roberto Paci Dalò, 1915 The Armenian Files, onorato allo scorso Premio Napoli, roso dall’emozione, ha preso carta e penna, scrivendo una lettera pubblica. «Solo tramandando a chi verrà dopo di noi quanto è accaduto a chi c’è stato prima di noi, potremo sperare in un mondo diverso. In un mondo di pace, di giustizia. In un mondo in cui i crimini contro l’umanità siano solo un vago e sfocato ricordo del Secolo Breve. Tu Roberto sai anche questo: è uscito il tuo cd 1915 The Armenian Files dedicato al genocidio degli Armeni, di cui quest’anno ricorre il centenario. È il tuo riconoscimento di un terribile crimine contro l’umanità, è il tuo contributo perché non accada mai più». Un milione e mezzo. Questa è la cifra, feroce, pazzesca, del genocidio armeno. Un milione e mezzo di armeni deportati ed eliminati dall’Impero ottomano. Dai turchi. L’evento tragico (che prefigura le deportazioni di massa hitleriane) è diventato oggetto letterario (I quaranta giorni del Mussa Dagh di Franz Werfel, del 1933, e la recente fama di Antonia Arslan da La masseria delle allodole in poi), ma soprattutto di dispute, di discussioni osteggiate dal negazionismo turco. Per fortuna Roberto Paci Dalò non è uno storico, ma un artista eccentrico. Compositore, regista, interprete, cresciuto sotto il totem di John Cage, trent’anni fa ha inventato la compagnia Giardini Pensili e da allora gira il mondo come un profeta «dell’integrazione tra tecnologie analogiche e digitali». Il Premio Napoli 2015 (condiviso con Paolo Poli, Bianca Pitzorno e Serena Vitale) ne ha elogiato la carriera. Ma soprattutto, un disco (che è film, mostra e opera radiofonica, pure), dalla didascalia chiara come il sole («Nel 1915 oltre 1.500.000 armeni vennero trucidati dal governo ottomano in quello che ora ricordiamo come il primo genocidio della storia. Eppure, a un secolo di distanza, il genocidio non è ancora stato riconosciuto dal governo turco»), strategicamente pubblicato nell’anno del centenario, appena trascorso. «Ma il mio lavoro non ha nulla a che fare con il centenario». Davvero? «Credici. Ho cominciato a lavorare con l’Armenia dalla fine degli anni Ottanta». Il disco tenta una fusione fatale tra le poesie «dedicate a un’Armenia pastorale, bucolica» di Daniel Varujan (poeta della patria, ucciso a colpi di pugnale, dopo essere sfollato da Costantinopoli, proprio nel 1915), le «fonti storiche, la musica tradizionale armena e le sonorità elettroniche». Paci Dalò ha il profilo netto da artista, di beghe politiche non s’interessa. Eppure, scavando nelle ulcere della storia, «mi accorgo che parlare di 100 anni fa è come scattare una polaroid del dicembre 2015. C’è il conflitto russo-turco, c’è la deportazione degli armeni, che ha più di una affinità con il genocidio dei rifugiati e dei profughi attuato in questi mesi: viene davvero da domandarsi, che epoca stiamo rivivendo?». Lavoro compiuto con «le voci dei sopravvissuti», sperando «di prevenire altri, ulteriori genocidi», nel disco la voce recitante è quella dell’armeno Boghos Levon Zekiyan, già docente alla Ca’ Foscari di Venezia, «nominato dal Papa Arcivescovo di Istanbul», artefice di svariati tentativi di dialogo con il governo turco. Beh, sarebbe sperabile che portassi il tuo lavoro a Istanbul… «Se mi fanno entrare, il disco lo porto senza dubbio. Attualmente, c’è un piccolo problema con Erdogan». Un problema che dura da troppo tempo.