Conversazione con Roberto Paci Dalò

Conversazione con Roberto Paci Dalò

Conversazione con Roberto Paci Dalò

Giardini Pensili (31.01.1997)
di Guendalina Vigorelli

Teatro del linguaggio, teatro dell’immmagine, teatro come laboratorio
aperto di sperimentazione in continua evoluzione. Luogo d’incontro delle
differenze per una creazione libera dal concetto di appartenenza. Luogo
della traduzione e dell’attraversamento. Spazio e tempo frazionato,
moltiplicato, dilatato nella molteplicità dei livelli percettivi.
Scenografie elettroniche e corpi danzanti, spazialità sonore e presenze
digitali, le Baccanti di Euripide rivisitate sul ritmo del trip-hop per uno
spettacolo-rave di sette ore: questa la nuova produzione di Giardini
Pensili.

 

– G. Chi sono Giardini Pensili?

– R.P.D. Giardini Pensili nasce come compagnia teatrale nel 1985, creata
da me e da Isabella Bordoni. Proveniamo da formazioni diverse, io ho fatto
regia e musica, Isabella Bordoni ha una formazione letteraria. La
compagnia ha dato vita nel corso degli anni, ad un’ equipe di lavoro
– attori, attrici, musicisti, disegnatori, fotografi, teorici – con i quali si è costruito nel tempo un rapporto di autonomia reciproca, eppure di grandissima influenza. Persone che spesso hanno un proprio percorso artistico ma che vengono coinvolti su produzioni e progetti: sono parte della compagnia perchè il loro contributo teorico, estetico, umano, è per noi prezioso. Crediamo vivamente nella pratica di lavoro collettivo, allo stesso tempo è per noi indispensabile mantenere alto nel rispetto di ognuno, il senso ed il controllo sul nostro lavoro.

– G. Dunque l’ideazione, la progettazione dello spettacolo nasce da voi due…

– R.P.D. Sì, per quanto riguarda le nostre produzioni.
Ma spesso lavoriamo su progetti – si tratta per lo più di progetti internazionali che focalizzano la relazione tra tecnologia ed arte – dove l’ideazione è con altre persone, ciascuna con la propria formazione.
Tullio Brunone, Patrizio Esposito, Oreste Zevola, Gerfried Stocker, Rupert Huber – solo per citarne alcuni – sono artisti con i quali la messa in campo di energie avviene spontaneamente.
La struttura della compagnia teatrale è quella che più ti permette di lavorare con gli altri, secondo modalità diverse. È un luogo necessariamente d’incontro, fatto di collaborazioni tra persone che provengono da ambiti diversi. Noi usiamo questa struttura come luogo di transiti, una sorta di laboratorio permanente. Nasce nel 1985 e da allora ha cominciato a produrre spettacoli teatrali ma anche, contemporaneamente, lavori legati alle tecnologie, dell’epoca ovviamente.

– G. Fin dall’inizio quindi c’è stata una particolare attenzione ai nuovi mezzi tecnologici e ai diversi linguaggi che da questi inevitabilmente scaturiscono.

– R.P.D. Sì, decisamente, vuoi per formazione, vuoi proprio per interesse.
Poi Giardini Pensili nasceva a metà degli anni Ottanta in un momento di grande fermento, in un momento in cui nascevano moltissime compagnie teatrali ciascuna con una propria ricerca, con una propria visione estetica. Un
movimento di compagnie fortemente sostenuto anche da intellettuali come Beppe Bartolucci che ha evidenziato il sorgere di tutte queste realtà. Poi la compagnia, per motivi non casuali ha iniziato a lavorare subito all’estero.

Il primo invito è venuto al debutto del nostro primo lavoro, dalla Danimarca.
Per anni abbiamo lavorato assiduamente nel Nord Europa poi c’è stata una permanenza a Berlino di due anni in seguito al premio DAAD. Per cui abbiamo lavorato al programma culturale della città insieme ad artisti locali, abbiamo prodotto l’opera Auroras, e soprattutto abbiamo intrecciato rapporti con un po’ tutte le istituzioni della città, tanto che fuori dall’Italia, consideriamo Berlino la città con con cui meglio ci rapportiamo perchè è anche un luogo d’affezione. Poi Berlino è una vera metropoli…
Tra altri luoghi determinanti per lo sviluppo del lavoro bisogna poi citare San Francisco – dove vi è stata una lunga residenza nel 1989 – e Vienna che è uno dei luoghi a noi più famigliari.

– G. Corpo, voce e spazio, recitava la voce di Isabella Bordoni nella lettura-performance che avete presentato a Mestre lo scorso Novembre ad Opera Totale 2, ad indicare i tre elementi fondamentali su cui si concentra
il vostro lavoro, la vostra ricerca. Tre termini che racchiudono al proprio
interno una molteplicità tale di accezioni e di sensi che penso sia
opportuno soffermarsi un po’ su queste tre figure per comprendere qual è la
piattaforma concettuale, di pensiero, da cui si originano i vostri spettacoli.

– R.P.D. Da sette anni il nostro lavoro verte sul inguaggio inteso in senso lato, sui problemi del linguaggio, sui problemi della traduzione tra territori diversi o apparentemente differenti, ed anche sui problemi della traduzione all’interno dello stesso territorio, della stessa lingua e linguaggio. A partire da questo inizialmente problema e successivamente stimolo, si è creato tutto il nostro lavoro di questi anni.
Inevitabilmente il rapporto col corpo è a dir poco prioritario. Il corpo è
il luogo in cui tutto passa. Allora il problema in teatro è di dare un luogo a questo corpo e di fare di questo corpo un luogo.
Corpo che si colloca nello spazio scenico ma anche nello spazio mentale, nello spazio del senso. Il teatro è un luogo epico, trascendentale, tragico, sempre. C’è sempre una narrazione e c’è il problema di incarnare tutto questo. Un riferimento fondamentale, per quanto mi riguarda, sono i teatri orientali, quei teatri cioè che nel corso di millenni hanno sviluppato una relazione estrema, profonda, molto formalizzata tra corpo, testo e spazio, molto astratta e molto vicina proprio perché astratta. Il fatto di delimitare un perimetro, di definire in modo molto preciso quali sono i tuoi limiti innesca dei processi di libertà, non la libertà del luogo comune ma esattamente il contrario, il luogo cioè non-comune, che è lo spazio della propria identità.
Quando viene definito soprattutto quello che non c’è, quello che manca, lì può succedere qualcosa. Anche perché nella costruzione di uno spettacolo e di un progetto definisci, nel corso del tempo, gradualmente, un territorio, un campo di energie, pronto per essere agito e agito nel giusto momento, né prima né dopo, è un momento spazio-temporale.

– G. È il tempo della performance, il momento in cui ciò che accade potrà
essere ripetuto solo nella differenza, poiché entrano in gioco una serie di
elementi, pensati o lasciati aperti alle modificazioni del caso, che
intervengono a situare lo spettacolo nel tempo del divenire, del
cambiamento…

– R.P.D. Esatto. Infatti esiste una differenza cruciale dal punto di vista
percettivo per esempio tra un’installazione e uno spettacolo. Ogni cosa ha
bisogno del giusto luogo e del giusto tempo anche dal punto di vista
fruitivo. Quando tu fai uno spettacolo assegni uno spazio e un tempo
delimitato, molto preciso. É un accordo tra te e il pubblico. Se tu vai a
vedere un’installazione ricavata dai materiali dello spettacolo, dai la possibilità di accedere a questo materiale in maniera personale, fatta di tempi e spazi propri. Si accede dunque alla stessa cosa ma in modo completamente diverso.

– G. L’interesse che rivolgete all’elemento-corpo è stato, ed è, in
qualche modo condizionato dall’uso di strumentazioni tecnologiche?

– R.P.D. Fin dall’inizio abbiamo lavorato con delle protesi – lo è già un microfono – e c’è sempre stato un grande interesse ed un grande fascino per la tecnologia anche perché l’utilizzo di tecnologie nell’ambito della scena permette di creare un ulteriore straniamento che modifica o annulla questo apparente naturalismo che ora come ora diventa di tipo televisivo. Però sono sempre stato molto più affascinato dall’uso di tecnologie invisibili, celate, non
mostrate, perché mi sembra più eccitante un gioco di dettagli, di particolari.
Ad esempio fin dall’inizio si è lavorato sull’elaborazione dei suoni in tempo reale, ma in maniera esplicita. Per esempio attori e attrici che usano microfoni
attaccati alla faccia con un pezzo di nastro adesivo nero, per rendere esplicito il passaggio della tecnologia applicata al corpo. Magari un corpo delicato vestito di un proprio quotidiano. Intuire delle anomalie su di un corpo “normale” è talmente sconcertante!
Abbiamo realizzato delle protesi che a volte semplificavano i processi in scena altre volte creavano invece degli impedimenti, macchine che modificano il movimento, abiti che costringono all’immobilità…

– G. Mi viene in mente la presenza in scena di Isabella Bordoni, sempre
nel lavoro che avete presentato a Mestre: era un corpo assolutamente
neutro, quasi assente, i suoi movimenti meccanici suggerivano l’idea di un
robot da cui uscivano suoni ed immagini a riempire una spazialità
frammentata, molteplice, costituita da più livelli percettivi. Tra l’altro
mi sembra che nel vostro lavoro ci sia una precisa volontà di spiazzamento
sensoriale sia visivo che sonoro.

– R.P.D. È verissimo. Si tratta di un lavoro sul corpo sviluppato in modo
molto cosciente per eliminare un certo psicologismo e che inevitabilmente
avvicina il corpo ad un modo-macchina. Poi quello che abbiamo sempre fatto
è creare degli spettacoli particolari in cui venivano usati dei sistemi di comunicazione. Ad esempio, abbiamo fatto un lavoro a New York, era il 1990, ospiti dell’ Experimental Intermedia Foundation, dove la voce di un’interprete che si sentiva in scena proveniva in diretta dall’Italia. Servivano solo un telefono e un mixer che ridistribuiva la voce, era in sostanza una teleperformance.
Oppure nel ’91 tra Vienna e Innsbruck abbiamo fatto un lavoro intitolato La natura ama nascondersi, era una fiction su Mozart all’interno di un simposio – Le geometrie del silenzio – organizzato dal Museo d’Arte Moderna di Vienna insieme alla radiotelevisione. Era il primo esempio di videoconferenza in ambito artistico realizzata in Austria, per fare il quale ottenemmo il permesso di installare dei cavi che mettessero in collegamento i due centri della performance. Anche se in realtà la performance si svolgeva nello spazio elettronico. Uno spazio che esiste solo nel momento del collegamento.
Uno spazio che quando c’è la connessione non è né qui né là, ma è nel mezzo. È lo spazio “tra”. Lo spazio elettronico è lo spazio dell’emigrazione, di colui che non sta bene dove sta ma non sta bene neppure nel luogo da cui proviene. È un luogo continuamente mobile, uno spazio mentale, flessibile, utopico.

– G. Certo, è innanzitutto un luogo mentale quando lo si considera il
luogo in cui si realizzano delle connessioni, lo spazio delle
contaminazioni, la zona del confine in cui le differenze convergono per
creare delle figure ibride, molteplici, aperte. Poi esiste lo spazio
elettronico più strettamente inteso che è lo spazio della comunicazione e
che, dal mio punto di vista, è altrettanto interessante perché sviluppa
nuove modalità relazionali, nuovi modi d’incontro, nuove modalità di
percepire l’altro. Possiede un proprio linguaggio. Non riesco ad
allarmarmi di fronte ad esso perché non credo che una realtà debba essere
cancellata o sostituita da un’altra, preferisco pensare alla compresenza di
più realtà, più spazi, più tempi differenti tra loro e proprio per questo
stimolanti. Credo che continuare a procedere in un sistema di pensiero che
si sviluppa per opposizioni dualistiche non abbia senso. Non è costruttivo.
È un sistema povero. Ciò che diventa veramente interessante in una
videoperformance diventa dunque la scoperta e la sperimentazione di queste nuove modalità relazionali tra gli attori presenti, gli attori immagine,
gli attori suono… chiaramente anche dal punto di vista dello spettatore.
Io vedo l’immagine di un attore, ma questo attore dov’è?

– R.P.D. Non solo, c’è un altro dettaglio da considerare. Perché devi
pensare che questa persona oltre ad essere qui e là allo stesso tempo,
questa persona è in un altro tempo, questa persona è tra due, cinque, otto
ore. Un nostro lavoro recente – Metrodora – utilizza una scena elettronica creata in tempo reale con delle riprese a circuito chiuso da camere normali e a infrarossi. Abbiamo usato anche delle immagini da internet, in particolare un’immagine della stazione di Berlino, per cui dal vivo – in tempo reale – l’immagine vera che arrivava da Berlino, era proiettata in scena. Allora, tu sei lì che stai agendo in scena, o dove ?
Sei qui o sei là? Ma quel là dov’è? È là o qua?
Perché l’immagine che tu vedi è vera! Ma cosa significa “è vera”? Allora c’è
un altro problema legato ai conflitti dualistici di cui parlavi. È una cosa
molto primitiva e poco interessante. Il problema è che moltissima gente si
crea una ragion d’essere quando viene creato un nemico, c’è la necessità
della costruzione di un nemico a tua immagine e somiglianza, che ti
permette di giustificare la tua vita, le tue azioni e allo stesso tempo le
tue mancanze. Io non mi trovo assolutamente d’accordo. Lo considero un
sistema di porsi che impoverisce. Io vorrei costruire delle macchine che siano
macchine di pensiero e che provochino delle domande, dei problemi e dunque una riflessione, una discussione.
Agamben ne La comunità che viene ha scritto qualcosa de genere: è possibile una comunità che non si riconosca in un’appartenenza a qualcosa? Una comunità fatta in un modo tale per cui parteciparvi non debba necessariamente portare l’obbligo di un’apparteneza
(ideologia, etnia, etc…) ?
Levy che ha materializzato questo modo di pensare nelle reti, cioè la creazione di una comunità di liberi individui.
Quando abbiamo fondato la compagnia teatrale l’abbiamo fondata
come una comunità di liberi individui, ciascuno con le proprie differenze,
che trovano in essa un possibile luogo d’incontro e di lavoro. Lo stesso
discorso vale in rapporto al pubblico. Quando facciamo uno spettacolo esso
diventa la scusa per innescare dei processi di comunicazione. Tutto il
nostro lavoro quindi è sul linguaggio e sulla comunicazione e sui problemi
della comunicazione e della telecomunicazione. Poi il corpo è la tua
interfaccia, è dunque il luogo dove questi scontri avvengono, allora il
problema del corpo nel teatro è che il corpo è una macchina che deve
incarnare il testo. La filosofia è interessante, ma la filosofia incarnata
in un corpo è più interessante.

– G. La vostra ultima produzione, che avete realizzato quest’estate, è Trance
Bakxai, me ne vuoi parlare?

– R.P.D. Abbiamo lavorato sulle Baccanti di Euripide. Non è una tragedia, è
qualcosa di più, è l’ultimo lembo del tragico greco, è un’opera abissale,
complessa. Scanning Bacchae è uno spettacolo teatrale in
coproduzione con Ars Electronica che utilizza una scena
elettronica fatta di immagini riprese in tempo reale e immagini
preregistrate, tutto a partire dalle macchine-corpo degli interpreti.
Per questo lavoro tratto da, e non su, le Baccanti abbiamo utilizzato il
testo greco originale come cellule campionate – fonemi, frasi, sillabe – che
costituiscono tutta la struttura acustica dello spettacolo, la cui forma è
quella del trip-hop, un bit lento che farà un po’ da pedale, da trance per
tutto il pezzo. Abbiamo inserito un piccolo coro che interveniva come
testimone di ciò che accadeva e come luogo-momento di riflessione. È stato
scritto un testo, in italiano e in tedesco. La prima, a settembre all’interno di Ars Electronica Festival il cui titolo quest’anno è Flescfactor, verrà fatta in un hangar dei cantieri navali di Linz.
Ma prima abbiamo presentato, (l’anteprima a maggio, all’interno del festival di video teatro Riccione TTVV) Trance Bakxai: una sorta di rave teatrale, una partitura drammaturgica di sette ore con musica, testo, attrici, tutto dal vivo da mezzanotte all’alba.
In Trance Bakxai è data la possibilità alla gente di entrare ed uscire dal luogo che è contemporaneamente luogo della scena di cui il pubblico stesso è parte. Di questo lavoro si profila un tour piuttosto denso, tra i tanti luoghi ne cito alcuni: Interzona a Verona, Musica 90 a Torino, Treatro 2 a Gardone VT, Centro Servizi Spettacoli a Udine poi Palermo, Bologna, Napoli, Lecce…
La musica realizzata da me e da Rupert Hubert, è costituita dalla fusione di suoni campionati e da strumenti tradizionali suonati dal vivo, il testo è di Isabella.
Abbiamo lavorato con le informazioni subliminali sia visive che sonore.
Quindi alla fine lo ‘spettatore’ esce con pezzi di informazioni che gli sono giunte attraverso percorsi che escono dal tracciato classico della comunicazione. È tutto un lavoro sulla percezione.

– G. Un lavoro sulla percezione… Mi sembra un esperimento molto
interessante e divertente allo stesso tempo, soprattutto per i fruitori che
potranno viversi la dimensione del rave però in un contesto molto più ricco
di stimolazioni. Un progetto che include l’idea del gioco, della festa,
della partecipazione attiva di uno spettatore che non è più tale. L’idea di
un’arte che vuole mischiarsi, confondersi con esperienze reali e vive come
sono quelle dei rave in cui, tra l’altro, si verifica una modificazione
della percezione spazio-temporale sia per l’assunzione di sostanze
empatogene e/o allucinogene (ecstasy, ketamina, trip, funghi), sia per la
sovreccitazione causata dalla musica, dalle luci e dagli eventuali supporti
visivi. Dunque creare, generare, uno spazio ed un tempo molteplice,
multiforme, fatto di differenti piani che con-vivono, che si compenetrano.
Uno spazio ed un tempo sfaccettato al cui interno si sviluppano linguaggi
diversi che occupano diversi livelli. Anche lo spiazzamento sensoriale
determinato da un certo uso di tecnologie più o meno avanzate contribuisce
a modificare la percezione del tempo e dello spazio.

– R.P.D. Certo. Un sistema tecnico che usiamo regolarmente con le
produzioni è la distribuzione multicanale del suono, per cui la base sonora
degli allestimenti che facciamo è costituita da un suono sia programmato
che ripreso in tempo reale e distribuito su otto canali separati, gestiti
via computer. Ad esempio la voce di un’attrice che parla in scena
all’improvviso inizia a camminare attorno a te. Si costruisce una ragnatela
di suoni. Crei uno spazio acustico. Il suono consente di dare
tridimensionalità alla scena che è fondamentalmente bidimensionale, molto
legata, anche in modo compiaciuto, all’immagine. Sviluppare più piani, più
livelli percettivi. In teatro c’è il problema dei campi lunghi, cioè hai
sempre una panoramica che rimane la stessa. Il fatto di giocare con le
tecnologie ti permette di prendere un occhio in tempo reale e di
distribuire questo occhio su dieci metri di base. Allora una cosa è vedere
un occhio su un monitor e un’altra è vedere un fondale di dieci metri fatto
di un occhio, o di un dettaglio del corpo. Ciò che mi interessa è lavorare
su cose molto semplici, quotidiane, ma spostando il punto di vista,
ruotando la prospettiva in modo da mostrarle in altro modo.

Da segnalare
http://www.giardini.sm