Roberto Paci Dalò GIARDINI PENSILI
Roberto Paci Dalò GIARDINI PENSILI
(Intervento raccolto con la collaborazione di Silvio Combi)
Nei miei lavori il testo, in quanto scrittura di parole, non ha una posizione gerarchica rispetto al resto. Troppo spesso mi è capitato di assistere a spettacoli che erano la messa in scena del testo e questo di per sé non è un problema, ciò che non funziona è che tanti spettacoli teatrali di questi anni, senza distinzione di genere, hanno una durata temporale pari a quella del testo. Lo spettacolo dura due ore perché ci sono due ore di testo. Questo significa che non c’è un senso del tempo appropriato al linguaggio specifico della scena. Sembra che i loro autori non sappiano che cos’è il tempo. Le arti come la performance, il cinema, la musica, si chiamano “Time Based Art”: arti basate su processi temporali. Perché molti film non funzionano? Perché hanno un tempo sbagliato. La sensibilità rispetto al tempo è una cosa che ha molto a che fare con le strutture compositive musicali, indipendentemente dal fatto di usare la musica o di essere musicisti. Ma l’autore-regista non può non essere un “compositore”, cioè qualcuno in grado di controllare e gestire i processi temporali in uno spettacolo. Questa è per me una discriminante fondamentale. Se c’è un appiattimento sulla temporalità del testo scritto, non c’è il tempo di inserire altre cose che potrebbero servire da un punto di vista drammaturgico, ad esempio un silenzio. Io a teatro spesso dormo, è uno dei posti migliori per riposarsi, infatti non sto mai in platea, davanti, cerco di stare dietro o sui palchi dove si può dormire in tutta tranquillità. In Italia il rapporto col testo è spesso un rapporto acritico, supino, per cui ci sono dei testi che sono semplicemente trasposti in scena, pari pari, spesso non ci sono nemmeno tagli di battute, come invece accade normalmente nel resto nel mondo. I paesi di lingua tedesca, ad esempio, hanno una figura che in Italia non esiste: il Dramaturg, che lavora in simbiosi con il regista e interviene sul testo, taglia e ricompone, confronta le diverse traduzioni e versioni sceniche, e questo è considerato un procedimento normale, non avanguardistico. È la stessa tradizione teatrale della messa in scena che necessita di un lavoro di questo tipo sul testo.
I motivi scatenati per la creazione di uno spettacolo possono essere infiniti. All’interno di questi motivi il testo può essere uno, ma non è detto che poi sia centrale all’interno dello spettacolo. Qualche anno fa ho fatto uno spettacolo intitolato Animalie, un commentario ad un testo del filosofo Giorgio Agamben (L’aperto. L’uomo e l’animale), a mio avviso indicibile in scena. In teatro abbiamo perciò utilizzato il dispositivo scenico come glossa, come commento, come nota, utilizzando tutti i linguaggi, ma non quello della parola. Giorgio Agamben aveva registrato in parte il testo, che è stato poi elaborato con la sintesi granulare e trasformato in materiale sonoro, quindi tutto lo spettacolo era pieno della voce dell’autore, la grana della sua voce creava l’immagine acustica del testo, che però non si sentiva, non c’era una parola riconoscibile. Ho fatto spettacoli completamente senza testo, altri hanno invece una saturazione di testo dall’inizio alla fine. Mi riferisco in particolare ai lavori fatti con Gabriele Frasca, nostro collaboratore abituale, raffinatissimo drammaturgo, poeta, romanziere, saggista e – tra l’altro – traduttore di Samuel Beckett per Einaudi. I suoi testi densi possono occupare lo spazio di un intero spettacolo, magari tutto scritto con un vocabolario contemporaneo ma costruito in endecasillabi nascosti, alla maniera dantesca, la metrica diventa il motore di una scansione dirompente. La metrica è il vero motore del Contemporaneo.
Fondamentalmente, tutto quello di cui io voglio parlare sono dei dispositivi che utilizzano la macchina scenica e tutti i suoi elementi per creare degli stati di alterazione. Quindi tendo a mettere in evidenza dei fenomeni di dissociazione o di personalità multipla, ma tutto questo non con un’accezione patologica, assolutamente, anzi, nel senso migliore del termine, di sperimentazione di esperienze spazio-temporali straordinarie, cioè fuori dall’ordinario. Lavoro da anni con lo psichiatra e psicoterapeuta Leonardo Montecchi (direttore del Centro Studi Joseé Bleger) proprio su queste tematiche portando avanti una doppia ricerca artistica e scientifica. Anche andare a vedere uno spettacolo più o meno innovativo, di ricerca, tecnologico, può diventare una routine: a me interessa costruire degli eventi, piccoli o grandi che siano (dipende dal contesto), che però riescano a stupire lo spettatore, anche rispetto ai materiali usuali. Per esempio con l’attore Roberto Latini creammo qualche anno fa uno spettacolo intitolato Shir basato sul Cantico dei cantici. Un testo che si suppone conosciuto dai più e che utilizzammo sia italiano e in ebraico, lavorando soprattutto sulla corpografia e sul suono, che era il nucleo fondamentale, con l’uso di campionamenti digitali ed amplificazioni particolari. Tattiche per incarnare il testo nel corpo.
Fino ad un certo periodo ho preferito non utilizzare tecnologie video percependole di una qualità troppo bassa per le cose che avevo in mente. Ho invece lavorato con il Super8 preferito grazie alla sua grana che crea una percezione completamente diversa e incomparabile rispetto al (terribile) formato VHS. Dopo di che è arrivato il digitale. In generale a me non interessa la tecnologia in quanto tale. Vero è che da un punto di vista squisitamente drammaturgico ci sono cose che possono succedere solo perché esistono le tecnologie. Quindi non è meglio o peggio, il teatro fortunatamente esiste nel momento in cui – appunto – esiste indipendentmente da videoproiettori o impianti suono particolarmente sofisticati. Uno spazio, una luce, un accadimento in uno spazio-tempo dato… l’evento più minimale del mondo può essere teatro, il teatro è un’arte della sottrazione: esiste nel momento in cui vengono eliminate delle componenti. Ad esempio il buio implica la sottrazione della luce: già lì è teatro. Il mio teatro, almeno, è proprio basato sul fatto di ridurre i materiali all’essenziale nel microcosmo di un’azione, per mettere in moto qualcosa di più complesso a livello di percettivo e sensoriale.
Quando uso la tecnologia in scena ho bisogno di certe condizioni e di un’alta qualità, sia per la ripresa sia per la proiezione, ad esempio odio i monitor, non riesco a usarli, e finché non ci sono stati dei videoproiettori che mi sembravano sufficientemente vicini a questo desiderio non li ho potuti adottare. Dopo di che ho iniziato a lavorare con il video da un lato in teatro e dall’altro nel mio territorio privilegiato di investigazione, cioè l’esplorazione sistematica dello spazio urbano. Quindi la città nel senso più ampio del termine, scandagliata e analizzata da sempre sia attraverso le tecnologie dell’immagine, del video, sia attraverso le tecnologie del suono. Questa è proprio una sorta di ossessione per me che è tornata in tutti i miei lavori teatrali indipendentemente dal soggetto o dalle tematiche.
Ho iniziato facendo piccoli lavori e producendo brevi film (al massimo di un’ora e spesso basati su esplorazioni di spazi urbani) che però non ho quasi mai presentato nei festival video preferendo invece festival cinematografici. Per vari motivi mi sento vicino al cinema. Lavoro con montatori, direttori della fotografia, troupe più o meno grandi che vengono dal cinema e quindi anche il pubblico dei miei piccoli film è quello. Questo porta a un altro tipo di riflessione, sul termine, che io non uso mai, “multimedia”. Lavoro con più tecnologie e più linguaggi, ma non perché deve stare tutto assieme, sarebbe terribile!
Al contrario lavoro con più tecniche per approfondire aspetti diversi, non per accorpare. Questo significa che se ho bisogno di approfondire degli aspetti legati al suono in un’opera teatrale, posso lavorare ad esempio con la radio, perché è quel dispositivo che mi permette di creare molte più immagini di quelle che posso creare al teatro o al cinema o in televisione. Le immagini della radio sono quelle che vengono a crearsi nella testa di coloro che ascoltano; quindi è chiaro che la quantità delle immagini prodotte è inimmaginabile rispetto alla singola immagine che posso offrire io nello spettacolo. Sembra un paradosso ma non lo è. Ma lavorare con la radio significa conoscere la storia della radiofonia perché ogni tecnica è anche un linguaggio che ha una storia percettiva e un pubblico con precise caratteristiche, di cui occorre tener conto per avere un risultato di qualità e giudicabile anche da un pubblico radiofonico.
Allo stesso modo se ci sono dei danzatori in scena (lavoro molto con danzatori) la qualità del loro intervento deve essere eccellente per il mondo della danza, la coreografia deve essere impeccabile. Il pubblico non sta ascoltando un concerto che forse è una performance che magari è uno spettacolo di danza che magari potrebbe essere un’istallazione ma non si sa cos’è. Come autore non posso permettermi di stare in un territorio percettivo ambiguo dove il mio pubblico non sa mai dove appoggiarsi. Mi devo confrontare con il mio pubblico che sicuramente conosce bene il medium che sto utilizzando. Questo significa isolare questi mondi e lavorare su ciascuno in profondità. Capita così, all’interno di uno stesso spettacolo, di lavorare su parametri percettivi diversi. Ci può essere una scena tutta basata su una fonte di luce, la scena dopo centrata su un testo, e così via… I livelli di attrazione, i campi magnetici cambiano anche all’interno di uno stesso spettacolo.
Come “multimedia”, anche il termine “interattivo” è a mio avviso “pericoloso” a causa dell’abuso nel corso degli anni. L’interattività è per me la ricomposizione in tempo reale di un database ad opera del fruitore stesso. La immagino immersiva, quindi non può essere qualcosa di bidimensionale che sta lontana, come solitamente è il teatro. Gran parte del teatro che vediamo è infatti una scena bidimensionale basata su un concetto di quadro dove tutto si svolge dentro una cornice, che può essere quella dello spettacolo o quella del film, e quindi quando si parla di interattività nello spettacolo in relazione al pubblico resto un po’ perplesso. Mentre invece posso benissimo immaginare, e li abbiamo usati anche noi, sistemi di interazione all’interno della scena dove il performer, qualunque sia la sua disciplina (danzatore, musicista…), è in grado di attivare a sua discrezione una serie di parametri; quindi mi affascina – ad esempio – il danzatore che si muove in uno spazio e sia in grado di intervenire sulla luce… Una volta settato un sistema il problema a questo punto è come collegare in maniera dinamica hardware e software. Parallelamente definire la drammaturgia che sta dietro a tutto questo. Insomma: la ragione per cui si utilizzano certe tecnologie legate al concetto di interattività.
Questa è per esempio una cosa che mi affascina molto: esplorare le possibilità paradossali di certe azioni sceniche, per esempio piccoli movimenti che possono provocare grandi spostamenti, come accade nella fisica quantistica. C’è un termine scientifico intraducibile, “entanglement”, (una correlazione quantistica, un fenomeno in cui ogni stato quantico di un insieme di due o più sistemi fisici dipende dagli stati di ciascuno dei sistemi che compongono l’insieme, anche se questi sistemi sono separati spazialmente), che per me è diventata una parola chiave e una serie di lavori che stiamo facendo sono proprio basati su questo rapporto tra arte-scienza-natura.
Il teatro in questo modo non ha più niente a che fare con il classico “teatro di prosa”, assomiglia di più a una sorta di laboratorio alchemico, dove si lavora sulle sostanze e sulla trasformazione della materia, dei materiali, quindi a partire da acqua-vapore, vapore-fuoco, la temperatura, la polvere, tutte cose che mi sembrano interessanti proprio da un punto di vista drammaturgico; una drammaturgia alchemica. Non può non esserci un procedimento alchemico nella costruzione delle opere. Queste opere si manifestano ognuna in forma diversa ma sono sempre e soltanto un’unica Opera, tutti gli spettacoli realizzati, tutte le installazioni interattive derivano e procedono dalle ossessioni degli artisti.
Io sono ossessionato dal Nazionalsocialismo, dal Fascismo, dal problema del conflitto, della guerra e tutti i miei lavori scenici sono basati sulla costruzione di un terreno di conflitto, un vero e proprio campo di battaglia all’interno del quale devono essere utilizzate tutta una serie di tecniche tattiche e strategiche. Strategie che spesso sono mutuate proprio da una riflessione sugli studi dei conflitti, su “L’arte della guerra” dei vari Von Clausewitz o Sun Tzu. La scena è concepita come un campo di battaglia che viene accuratamente disegnato, predisponendo un dispositivo tecnologico perfetto, creando ambienti sonori immersivi, e all’interno di tutto questo possono esserci altri elementi come per esempio i corpi dei performer, ma anche altri corpi apparentemente immobili, come i musicisti e i loro strumenti. La precisione del dispositivo consente l’irruzione del caso, facendo accadere qualcosa di sorprendente, di non immaginabile a priori. Il primo livello, nel mio metodo di lavoro, è costruire un dispositivo impeccabile. Il secondo livello si manifesta quando all’interno di questo dispositivo succedono delle cose che io per primo non avrei potuto immaginare ma che possono esistere solo grazie a una adeguata precisione… si creano degli scarti a livello percettivo affinché il pubblico possa attraverso questo spettacolo pensare ad altro. E quindi, magari non immediatamente ma in seguito, svilupparsi oltre il mio lavoro; allora il mio spettacolo può anche essere dimenticato ma è servito per accedere ad altro.
Un altro aspetto fondamentale è il social design. Fare uno spettacolo equivale per me a costruire un laboratorio dove vengono iniettati nel pubblico, dal punto di vista percettivo, tutta una serie di data, di informazioni, di virus… Per riuscire a creare questa diffusione “virale” dei microrganismi creativi dello spettacolo devo arrivare al pubblico, riuscire a coinvolgerlo nel mio dispositivo. Questo richiede rispetto e gratitudine verso un pubblico che si è radunato per te, ma non significa accondiscendenza. Devo trovare l’interfaccia giusto, “adeguato”. Per questo preferisco costruire degli interfaccia relativamente semplici, che favoriscano un primo livello di accesso possibile per lo spettatore, anche indipendentemente dal bagaglio culturale o dall’età, o dall’etnia, o dalla lingua. Io mi confronto con tipologie di pubblico molto diverse fra loro, può essere a volte un pubblico più legato alla musica, oppure più legato al teatro e alla danza oppure più tecnologico, che segue un certo tipo di festival come Ars Electronica, per cui la stessa cosa, lo stesso oggetto di carattere virale che io ho costruito lavorerà nella diffusione di questo virus in maniera completamente diversa in relazione alla tipologia del luogo, perché i pubblici hanno difese immunitarie diverse: la stessa cosa può distruggere uno spettatore o appagare un altro, basta spostarsi di poco in un territorio limitrofo che la stessa cosa ha un livello di percezione completamente diverso. Nel momento in cui si costruiscono delle drammaturgie del contemporaneo, al di là delle fascinazioni tecnologiche o dell’HD, LowDefinition, HFI, bisogna tenere conto anche di questi parametri. Senza troppa ansia, ma diventando consapevoli che questi aspetti non solo sono importanti ma sono anche molto interessanti, e possono motivare gli artisti ad uscire da un lavoro di nicchia. Ci sono artisti di teatro anche molto famosi all’interno del mondo strettamente teatrale, ma che al di fuori di questo, in un contesto mediale più ampio, sono degli sconosciuti.
Per fare un esempio concreto, voglio ricordare un lavoro recente realizzato nell’ambito del Napoli Teatro Festival, con Gabriele Frasca. Il Festival commissionò una serie di prediche contemporanee a una serie di autori non teatrali e poeti, alcune interpretate da noti attori del teatro e del cinema. Gabriele invece ha scritto la drammaturgia di L’assedio delle ceneri, un ciclo di spettacoli su un Gesuita, Giacomo Lubrano, vissuto nel Seicento, un predicatore che come tutti i grandi predicatori dell’epoca era una specie di pop star, e predicava alla napoletana e quindi con modalità particolarmente fiorite, scenografiche e scenotecniche. Gabriele, che oltre ad essere un esperto di media e di Beckett, è anche un grande esperto di Barocco, sostiene che questo stile è il primo segnale di un mondo capitalista moderno, dove viene creata una società dello spettacolo. Il teatro barocco ha inventato tutto ciò che noi usiamo ora. Athanasius Kircher e tutta la grande tradizione gesuitica delle macchine, dei dispositivi teatrali, la camera oscura, le proiezioni, tutto questo è Barocco. Anche se poi nel nostro immaginario il Barocco ha un’accezione istintivamente negativa, ed evoca qualcosa di sovrabbondante, di eccessivo, in realtà era un mondo incredibile…
La messinscena è stata realizzata in un luogo molto particolare la Certosa di San Martino, l’apoteosi del Barocco napoletano. Per me qualunque luogo è un “oggetto trovato”, come insegna Marcel Duchamp, qualunque oggetto o luogo può diventare qualcos’altro anche solo a partire da un cambio di destinazione d’uso. Anche un teatro di tradizione non è solo quello che sembra ma può essere anche altro, che non è più quel teatro. Lo stesso vale per uno spazio di archeologia industriale o per una chiesa barocca, ovviamente vanno compiute delle azioni adeguate di volta in volta diverse in relazione alla tipologia del luogo e della drammaturgia che noi vogliamo creare lì dentro.
Alla Certosa di San Martino ho richiesto innanzi tutto un oscuramento delle finestre perché lo spettacolo veniva fatto di giorno… tutto buio,,, spegnimento dell’illuminazione della chiesa, installazione di una miriade di piccoli spot par 36 le cosiddette lucciole, mettendole nelle cappelle di questo edificio intoccabile, soprattutto per mostrare quello che non si vede di solito. Una drammaturgia sullo spazio, basata sulla sottrazione delle informazioni, per mettere in evidenza delle cose che solitamente non si vedono, per creare un sistema dinamico. Avevamo sette punti di diffusione sonora, sette canali separati, dentro e fuori, quindi sentendo all’interno i suoni che arrivano dall’esterno e viceversa. Quando il pubblico arrivava in questo luogo, si apriva il portale e appariva tutto questo barocco che poggiava su un lago di fumo. C’era uno strato di fumo da ottanta centimetri, come un dipinto cinese sul quale appoggiava un barocco occidentale napoletano. Ogni spettacolo era registrato su tre supporti audio diversi, perché il giorno dopo andava in onda lo spettacolo in radio. Quindi il ciclo di 11 spettacoli è diventato un ciclo radiofonico, 11 radiodrammi senza possibilità di postproduzione
Questo spettacolo è stato un banco di prova per riflettere su diverse cose, mi è servito molto anche da un punto di vista squisitamente antropologico, il museo di San Martino ha un centinaio di dipendenti, nessuno di loro aveva mai visto una cosa del genere, ed alla fine il direttore del museo, che era inizialmente ostile, voleva avere questo spettacolo in modo permanente. Puoi costruire una drammaturgia su un luogo dato, puoi costruire una drammaturgia sulla temperatura corporea, puoi lavorare sul suono, sulla musica.
Il suono, quando è utilizzato in maniera tattica-strategica, può produrre degli effetti inimmaginabili. 25 Hertz sono sette metri di onda, se io produco questi sette metri con 1db e un volume di un certo tipo, è difficile che un’onda non produca effetti. Se mi trovo ad esempio in una discoteca e passo davanti al subwoofer e sento un flusso di aria fredda che esce dal cono, quella è un’irruzione di una cosa apparentemente invisibile, in uno spazio fisico tangibile, che è il mio corpo. Quindi io posso creare una drammaturgia del suono dove non lavoro nemmeno sulla cosìddetta musica, ma su delle frequenze particolari, dove io passo da 12, 27, 20, 31, 24 Hertz.
Cosa può diventare un testo, nel momento in cui viene gestito a livello drammaturgico a partire dalle sue componenti foniche, fisiche, psicoacustiche? Ci sono possibilità infinite utilizzando le tecnologie oggi disponibili. Quando Carmelo Bene ebbe la grande intuizione di portare in teatro le tecnologie di amplificazione del mondo della musica, affidò la sua voce a un impianto suono normalmente utilizzato da un qualsiasi gruppo rock. Uno spettacolo di Carmelo era una specie di trance, una voce unica che si trasformava in un luogo o un luogo che creava una voce. Oggi si può utilizzare la sintesi granulare per scomporre i suoni, le immagini, qualsiasi cosa, e poi ricomporli in tempo reale in un materiale solido che diventa continuamente altro a partire da una prima informazione anche elementare come una frase, una parola, creando un ambiente acustico scardinante, sorprendente. Oppure si può lavorare sugli effetti di riverbero, dove i livelli di sofisticatezza sono tali, da farti decidere non solo quanto è grande il tuo ambiente, ma anche i materiali di cui è composto.
I nostri copioni sono quindi delle vere e proprie partiture. Una partitura dove si intrecciano e si sovrappongono le linee dei diversi interventi, mettendo assieme in maniera dinamica tutti i dati. Dove ogni cosa è scomposta fino alla struttura atomica e poi ricomposta con disposizioni più o meno grandi. Questo è il lavoro tecnologico che a me interessa, in grado di analizzare e valorizzare delle componenti anche microscopiche. Analizzare le cellule di una struttura drammatica come possono essere il testo, il suono, lo spazio dove le tecnologie non servono semplicemente come decoro ma hanno una funzione sostanziale. A me interessa una tecnologia che non si vede, non mi interessa che si vedano le macchine in scena. Mi piace creare un ambiente apparentemente usuale, che invece è costruito come un sistema sofisticato, che lavora su dei materiali molto sottili e offre la possibilità al visitatore, o spettatore, di decidere che livello di coinvolgimento vuole sperimentare. Si tratta di creare un’infinità di accessi possibili al dispositivo e poi è la singola persona che decide. E’ molto più interattivo questo di molte finte installazioni interattive dove magari tutto si riduce allo schiacciare un bottone. In alcuni spettacoli cosìddetti interattivi che mi è capitato di vedere era palesemente indifferente il livello tecnologico sviluppato, perché molto di quello che succedeva poteva essere fatto benissimo in regia, senza mettere in moto una struttura scenica fatta di tecnologie e sensori.
In Neve Rossa, uno spettacolo basato su un testo di Muller (collaboro spesso con la Società Internazionale Muller), ho utilizzato il formato Live Set. In uno spazio non teatrale dell’Uovo Festival, abbiamo costruito uno spazio centrale, con il pubblico intorno, sistemando un grande tavolo di tre metri per due, con macchinine, pupazzetti e soldatini, e poi abbiamo realizzato una specie di stop motion in diretta, tutto quanto ripreso e proiettato, con il testo e la voce di Muller e di un’altra persona. Il pubblico era tutto intorno a noi e poteva vedere il processo tecnico che utilizzavamo, questo a partire dalla forma Live Set. Quindi mi piace lavorare su dei formati classici come la lirica, ma anche su dei formati diversi quale potrebbe essere il live media.
Tutto questo ha a che fare con la progettazione, per cui qualunque regista, autore, drammaturgo, non può non essere un progettista, questa è una figura di sintesi che riunisce tutti i principali ruoli creativi del teatro, con questo non voglio dire che una sola persona debba fare tutto, anzi, intendo sottolineare che questo tipo di teatro, contemporaneo, tecnologico, che attraversa generi e linguaggi diversi, richiede una molteplicità di competenze e un complesso lavoro di gruppo dove, come accade per una produzione cinematografica, c’è una figura di riferimento – il regista – che ha la responsabilità di saper coordinare e pilotare tutti questi aspetti del lavoro.
Noi lavoriamo spesso all’estero, collaborando con artisti e tecnici dei luoghi che incontriamo, e questo non soltanto per motivi economici ma perché si creano nuove opportunità creative. In questi anni abbiamo sentito molto anche il problema della traduzione continua, “traduzione” a tutti i livelli: tra una lingua e un’altra, tra un sistema e un altro, tra un codice e un altro, più o meno open, più o meno chiuso. Si viene così a creare un laboratorio media permanente e nomade. La regia tecnica di uno spettacolo è diventata un media-lab, con una serie di dispositivi, mixer, computer, software, da aggiornare e tradurre continuamente, e noi abbiamo lavorato tante volte con programmatori che codavano in tempo reale. Per esempio se facevamo le prove di un lavoro, la persona che aveva stretto quell’applicativo lo implementava in diretta durante le prove, collegato con altri programmatori sparsi in giro per il mondo. Un media-lab che si materializza semplicemente nel luogo in cui sei, ma che rimanda e si collega ad altri luoghi, ci si sposta tra spazi paralleli che sono reali e tangibili. E’ la dimostrazione pratica della presenza di mondi paralleli…
Note
Centro studi e ricerche José Bleger, Rimini
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