Alcune note
Roberto Paci Dalò
Alcune note
Penso alla parola composizione riferita a più parametri, al di là della dimensione puramente acustica, sonora e musicale. La musica, com’è noto, è solo una piccola parte all’interno dell’immenso mondo sonoro. Spesso si tende a confondere le due cose, usando la parola musica come sinonimo del termine suono. Potremmo allora affermare che il suono contiene in sé, in modo formalizzato, una musica. La musica è allora un momento o una condizione del suono. Parlando del suono ci riferiamo quindi all’intera gamma dell’udibile, ed è necessario, in questo senso, pensare a un processo compositivo che incorpora il rumore e l’intero soundscape. Inoltre, a un primo livello, quando si parla di composizione nell’opera scenica, si rinvia, come giustamente ricordi, a un intervento che coinvolge il montaggio di tutti i piani. La composizione non può non riguardare, su entrambe i versanti, una riflessione sul tempo e sulle sue diverse dimensioni. È questione, come direbbe Tarkovskij, di scolpire il tempo di ogni intervento, sia performativo che installativo o sonoro. A un secondo livello il termine composizione, rinvia alla relazione, o meglio, all’equilibrio tra i diversi materiali della messa in scena; questo fa si che anche uno spettacolo generato a partire da un testo non sia succube di quest’ultimo. In definitiva, parlare della composizione, significa riferirsi alla forma complessiva attraverso la quale si dispiega un’opera. Quando Cage cita Coomaraswamy che dice che l’imitazione della natura è nel suo processo, non si tratta dell’imitazione della forma, bensì della sua struttura portante, qualcosa di molto più complesso della semplice visibilità esteriore. Comporre ha quindi a che fare con l’assunzione di responsabilità nei confronti di un processo.
Il paesaggio sonoro del nostro quotidiano si relazione strttamente al pasaggio visivo, ai materiali che si dispiegano di fronte a noi degli spazi urbani. Chiaramente è non solo possibile ma persino doveroso immaginare alla possibilità di laovorare a una progettazione che guarda e relaziona tutti questi aspetti. Con il suono è possibile costruire infinite drammaturgie dello spazio che noi occupiamo. È possibile sovvertire il nostro quotidiano con strumenti apparentemente intangibili. La città diviene archivio dinamico nel quale siamo immersi e il suono il nostro veicolo di esplorazione.
Operare all’interno di un archivio significa operare sui materiali in senso drammaturgico. La selezione è l’operazione cardine di questo processo. L’archivio ha quindi un’importanza assoluta, mi piace riferirmi ad un archivio perchè significa, innanzitutto, avere a che fare con materiali sconosciuti, obsoleti o dimenticati. Tutto ciò diventa ancora più importante nel momento in cui si delinea l’incontro/scontro con la rete, che è di fatto un enorme database. La creazione di un database, e quindi l’organizzazione e la ricerca dei materiali, consente in seguito la realizzazione di altre operazioni.
È necessario sottolineare che l’immagine, rispetto al suono, è molto meno definita, infatti il suo grado di aderenza al reale è molto diverso: nel primo caso una voce registrata resta lo stesso oggetto, fatto della stessa sostanza, nell’altro – mi riferisco ad una foto di un volto o a un film – si tratta di qualcosa che può al massimo evocare l’oggetto di partenza.
Penso al suono come scena acustica che assorbe tutti gli aspetti, fino ad avere un impatto percettivo e sensoriale sullo spettatore molto maggiore rispetto a quanto possa esserne capace un’immagine. Il suono, apparentemente astratto, agisce su parametri che sono molto più legati al corpo rispetto di quanto lo sia l’immagine. È come se l’immagine fosse sempre esterna al corpo, arrivi sempre dopo, come se mantenesse sempre una certa distanza oltre ad avere una scarsa capacità immersiva; mentre il suono è immediato e penetrante, scopico, investe direttamente la sensorialità. Si tratta di una cosa molto fisica che ha una spiegazione tecnica precisa: una serie di frequenze provocano determinate vibrazioni e risonanze. Queste vibrazioni risuonano a un doppio livello: sul piano dell’architettura spaziale e sul piano corporeo.
Tuttavia su questa nozione sarebbe necessario fare delle precisazioni, perché nulla è più materiale di un suono. Cominciamo prendendo in considerazione la questione aperta: materiale e immateriale. Prendiamo due esempi. Comunemente si tende a credere che la luce, così come il suono, siano componenti di carattere immateriale. Tuttavia il suono è una cosa che crea una materialità impressionante, così come, d’altra parte, la luce. Pensiamo solamente al lavoro di precisione, basato su leggi fisiche, che permettono a un suono di propagarsi e a una luce di diffondersi. Entrambi lavorano, in modo altrettanto determinante, sulla costruzione degli spazi; si pensi a tutte le risonanze che un suono produce o può produrre, o sulle diverse gradazioni che una luce disegna. Questo dipende anche dalla relazione che questi elementi instaurano con l’ambiente fisico in cui sono inseriti. Mi riferisco alla diversità di riverbero che può avere un suono in un teatro all’italiana, o in un ambiente industriale, oppure una luce su una superficie opaca o trasparente, o ancora alle dimensioni o alle frequenze… Dunque è proprio a partire da questi esempi che sarebbe necessario abbandonare la distinzione tra materiale e immateriale. Su questi presupposti, come indichi, sarebbe necessario decostruire l’opposizione tra virtuale e reale, pensandole come dimensioni o livelli di un unico processo in continua trasformazione.
Penso a una triangolazione percettiva che relaziona costantemente lo spazio (inteso come ambiente fatto di suono, luce, odori, temperature, volumi, ecc.), l’interprete e lo spettatore. Questa triangolazione permette uno scambio costante di informazioni a diversi livelli che modificano incessantemente, sia le singole componenti che la relazione tra queste. Sono questi gli stadi di trasformazione ai quali fai riferimento, essi non sono altro che tensioni che organizzano, da un punto di vista compositivo, i materiali. Questo processo è quindi centrale, ma lo è altrettanto quanto lavorare con formati riconoscibili. E questo è dovuto, in gran parte, dall’interfaccia che si decide di privilegiare. Penso che quest’ultima sia di grande importanza, perché porta inscritto il livello di accesso al lavoro da parte del pubblico. Mi interessano interfacce accessibili. Questo non significa una semplificazione del linguaggio; piuttosto si lavora su diversi livelli, e la complessità si organizza in relazione a una percezione soggettiva e in continua modificazione. Una volta attraversata questa soglia d’accessibilità, è possibile lavorare in profondità, intervenendo sulle variazioni, anche minimali, indotte a livello percettivo e sensoriale.
Sperimentare di nuovo il camminare può sicuramente contribuire a ritessere modalità percettive dello spazio e del tempo in grado di collocare il suono al centro del nostro sistema percettivo. A esperire la presenza, la forza e l’importanza del dettaglio in un mondo dove i dettagli sono tutto tranne che “dettagli”.
Molta musica contemporanea procede per astrazione tale da risultare di difficile accesso per buona parte del pubblico. Molta di questa musica è intrinsecamente autoreferenziale e per sua natura settaria; spesso è una musica lontana dal corpo e priva di passione. Molta musica che viene chiamata “contemporanea” di fatto tutto è tranne che contemporanea. Paradossalmente è musica vecchia, stantìa. Legata a forme e modi circoscritti a periodi storici e culturali ben delimitati che nel corso degli anni hanno creato vuoti stilemi. Le difficoltà del pubblico nell’esperire questa musica cosidetta contemporanea sono spesso legate alla sua natura profondamente cerebrale e autocelebrativa. Una musica che tende a non confrontarsi con le pulsazioni del presente e le diverse tipologie di pubblico. Ma, al di là di tante analisi più o meno pertinenti, questa musica spesso è percepita dal pubblico (ben più accorto e istintivamente preparato di quello che possono pensare tanti sedicenti superbi artisti) per ciò che nel suo profondo è: una palla.
(Settembre 2010)